lunedì 13 marzo 2017

Un Chien Andalou: recensione

Introduzione

Nel 1976 David Bowie apriva Isolar, il tour associato all'album Station to Station, con le più significative sequenze di “Un chien andalou”. Solo questo episodio potrebbe bastare per descrivere l'influenza che ebbe questo cortometraggio nella cosiddetta “cultura pop”, quella cultura fatta di immagini, suoni e volti, film, canzoni, cliché effimeri e idee innovative che insieme contribuiscono a costruire il mondo in cui siamo circondati.
D'altra parte, il connubio tra musica e cinema è perfetto in quest'opera: le immagini oniriche sono accompagnate dal Liebestod tratto dal Tristano e Isotta di Wagner, dramma musicale considerato come il capolavoro del Romanticismo Tedesco.
Per comprendere (o meglio, per comprendere che non si può comprendere) opere come Un Chien Andalou, bisogna tenere presente che è un film surrealista, e il surrealismo si distingue dagli altri movimenti molto simili, come il dadaismo, soprattutto per l'attenzione alla nascente psicoanasi. Il film è senza dubbio debitore del surrealismo, che ne costituisce la base culturale. In realtà però Bunuel si scagliava fortemente contro le avanguardie, tra cui il surrealismo. Il motivo risiedeva essenzialmente nel fatto che il surrealismo si indirizza di più verso un pubblico colto e d'élite, e concepisce il cinema come strumento estetizzante. Il cinema di Bunuel invece era rivolto a tutti, e non si limitava alle soluzioni estetizzanti amate dal surrealismo.

Il film è costruito come un'enorme esperienza onirica anche dal punto di vista della tecnica cinematografica, poiché il flusso delle inquadrature non rispetta il classico impianto narrativo. Rottura degli schemi tecnici e visivi e ricerca dello stupore, altre due cifre stilistiche con cui bisogna avvicinarsi all'opera.

Psicoanalisi, ovvero: il sogno non può essere poesia.

Dalì e Bunuel, gli autori effettivi del cortometraggio, dichiararono che il materiale del film derivava direttamente dai loro sogni, scelti tra quelli impossibili da spiegare razionalmente. Anche se alcuni elementi possono essere ricondotti a significati razionali, come la scelta del titolo o le citazioni varie all'interno della pellicola, il significato del film appare davvero non spiegabile a livello razionale, e infatti il suo vero scopo non è penetrare gli spettatori con immagini poetiche e artistiche, come farà poi tutto il cinema d'autore europeo e americano nei decenni successivi. Un Chien Andalou non vuole essere un'opera poetica. Il sogno e la poesia sono esperienze umane che hanno una funzione simile: il sogno è una rappresentazione che l'essere umano pone a se stesso in maniera del tutto inconscia per rielaborare esperienze che razionalmente non si vogliono o non si possono affrontare. Il sogno mescola materiali eterogenei per creare pensieri apparentemente unitari, che nella notte provocano emozioni. La poesia, almeno quella moderna iniziata tradizionalmente con la poesia di Baudelaire, è molto affine al sogno, e anch'essa attinge a materiali eterogenei per creare un'opera unitaria. La parola “creazione” è fondamentale per capire cosa vuol dire poesia, perché il significato della parola deriva dal verbo greco “poieo”, che significa creare. Entrambe le esperienze, la poesia e il sogno, creano, ma il sogno lo fa irrazionalmente. Per questo Un Chien Andalou non può considerarsi cinema di poesia, come tra l'altro dichiararono gli stessi autori. Questo non per sminuire il suo valore, ma per riportarlo al suo vero significato, ovvero quello di voler spiazzare lo spettatore, di destabilizzarlo, di disturbarlo, di spezzare le convenzioni temporali e spaziali prima di quelle cinematografiche. Le didascalie infatti non hanno alcuna attinenza con ciò che si vede, ovvia parodia delle didascalie del cinema muto. Il film deve “far dubitare della perennità dell'ordine esistente, anche senza indicare direttamente una conclusione, anche senza prendere apertamente posizione”.

Il cane andaluso

Anche se il film deve considerarsi privo di significato, ci sono piccole tracce di significato in alcune sue parti, a partire dal titolo. Sì, proprio l'elemento che sembrerebbe più assurdo e incoerente con la trama (non si vede nessun cane nel film, tanto meno andaluso) in realtà è probabilmente l'elemento più pregno significato.
L'attenzione si sposta in ambito letterario. Bunuel e Dalì erano anzitutto molto amici di Federico Garcia Lorca, uno dei massimi poeti spagnoli del Novecento. La loro amicizia si rompe però, e il dissidio diventerà artistico, oltre che umano. Garcia Lorca nel 1928 pubblica il Romancero Gitano, raccolta di poesie vitali, brillanti, splendenti. Da questi tre aggettivi si capisce come la visione poetica di Lorca sia completamente opposta alla poetica di Un chien Andalou. Dove c'è il sole, la natura e la vita, in Bunuel regna l'orrore, il disturbo e la morte. Contemporaneamente alla pubblicazione del Romancero, Bunuel pubblicava la raccolta “Un perro andaluz”, una sorta di negativo letterario del Romancero. Le due opere e i due poeti devono necessariamente essere messi a confronto per capire il significato del titolo. Probabilmente infatti il cane andaluso è proprio un riferimento a Lorca, che infatti se la prese molto quando uscì il film.

Analizzando il possibile significato del titolo, già le nostre certezze che ci dicono di considerare il film come un'opera fondata totalmente sull'esperienza inconscia si sgretolano. Un'ulteriore convinzione ci sovviene quando si guardano alcune scene con occhio attento, tenendo presente il cinema del passato. In ambito cinematografico, il riferimento più presente e più evidente è Keaton, del quale Bunuel è un grande ammiratore. Nella parte finale, la ragazza esce di casa e si ritrova sulla spiaggia. Evidente rottura del piano spaziale, che trae origine dalla scena da “La palla numero 13”, in cui Keaton da una cassaforte si ritrova in una strada. Un'altra citazione proviene da “Il cameraman”, e anche la gestualità dell'attore protagonista, Pierre Batcheff, ricorda molto quella del comico americano.
Dal punto di vista pittorico invece, le citazioni più evidenti sono quelle a Magritte (“Oscuro sospetto”, dove un uomo si osserva il palmo della mano. Verrà ripresa nel film dove il protagonista osserva il proprio palmo ricoperto di formiche), a Millet (“Angelus”) e a Vermeer (“La merlettaia”).

Scene rilevanti

Sarebbe inutile raccontare la trama di un cortometraggio come questo, anche perché di trama non si tratta. Basterà dire che una parvenza di continuità drammatica risiede nel desiderio sessuale, e nella mancata soddisfazione di esso. La pulsione erotica è inscindibilmente connessa con la pulsione di morte; il fallimento dell'uomo si manifesta non nella mancata soddisfazione della pulsione sessuale, ma nella manifestazione reiterata di essa. Soddisfare la pulsione non allontana la pulsione di morte, anzi: nella scena finale, l'uomo e la donna sono vicini, immersi nella sabbia, ma come morti non si possono toccare. Una scena disturbante, non certo quanto la scena iniziale, una delle più famose della storia del cinema: Bunuel stesso taglia l'occhio di una donna, che poi diventerà una luna grazie al montaggio.
L'apice onirico è raggiunto nella scena della tentata violenza, in cui l'uomo si avvicina ai seni della donna che si trasformano in quelli di un manichino. Poi la donna si rifugia in un angolo, e l'uomo per avvicinarla è costretto a trascinare tavole, due pianoforti, una testa d'asino e due preti.



A distanza di 88 anni, sebbene la sua carica anticonformista e scandalizzante sia ormai esaurita, resta un'opera che riesce a sorprendere ancora lo spettatore, non solo per le immagini in sé, ma anche per quanto riguarda il discorso meta-cinematografico. Resterà un'opera che come abbiamo detto riuscirà a instillarsi profondamente nell'immaginario della storia del cinema.