domenica 23 gennaio 2022

Hey you and mental health

It was mid-April 2020, and we were more than a month into quarantine. I wanted to play Pink Floyd’s Hey You, so I picked up my guitar and stood in front of the open window in my room. Empathy and relating to the artist’s feelings are essential when singing something, and, given the situation we were – and still are – in, relating to the song’s protagonist, Pink, didn’t take me too much of an effort. I sang in the original key without a microphone (Roger Waters hit some very high notes in the second verse), hoping someone would listen. Once I was finished, my grandmother, my quarantine partner, who is completely clueless about rock music, came into my room and asked me who the singer was. She added that the song gave her a feeling of death. That observation struck me and led me to write this. It was fascinating, since, as I said, my grandmother is clueless about rock music and about the English language too. She didn’t say the song seemed sad, or melancholic, or full of a sense of loneliness: no, she was entirely specific about the impression it left on her. She only got that from the musical elements her ear could sense: harmony, rhythm, melody and dynamics. Her uneducated guess was more than right: like the album it’s featured in, The Wall, Hey You is without a doubt a song that deals with death – spiritual death, yes, but still death. My relationship with rock music was very controversial. You usually get into it because you hate the world and seek refuge in something that says you can change it and mess it up. I was an odd teenager: I never felt the need to rebel, and while my peers listened to Nirvana and Pink Floyd, I was into Italian singer-songwriters. I got into rock music only years later, and learned to appreciate this genre thanks also to this song, which I liked since the very first listen because it isn’t mere rebellion, but a plea for help. Pink is completely isolated from the world thanks to a wall he built by himself, but he regrets his actions and it’s too late when he realizes he desperately needs the man “out there in the cold, getting lonely, getting old” with his “fading smiles”, sitting alone by his phone. He needs someone who suffers and lives alone just like him. Hey You deals with both death and strength. The powerful bass solo, Roger’s voice in the last verse. It starts with a simple arpeggio on the acoustic guitar culminating in a heart-wrenching guitar solo which is reminiscent of the military (The Worms, the movement Pink joins in this song, is unsurprisingly a Fascist Party). Here lies the genius of Pink Floyd. The simple guitar arpeggio becomes a tornado, weakness becomes strength. This strength was already within said weakness: every plea for help, despite being exclusive to the weak and to those who can’t find courage within themselves, is actually the greatest expression of strength there is. Only those who are aware they can’t be self-sufficient know how to ask for help, and their awareness is a symbol of great humility and spiritual sacrifice. In a world where human contact is now impossible or made difficult, we realize it was stronger than we thought and, like Pink, we felt – and still do – a desperate need for the person sitting next to us on the subway staring at their phone. Hey You helps us take a dive into our soul, it invites us to carefully listen to our own fragile and human plea, however desperate it might be. It teaches us there’s no heart-trending solo without an intimate arpeggio, there’s so strength without weakness

 


 

mercoledì 24 marzo 2021

Leggere Omero per tornare esseri umani durante la pandemia

 






 

 

 

La letteratura è vita. Questo è un concetto che la scuola difficilmente riesce a far passare, imbrigliata tra programmi ministeriali, interrogazioni e compiti. Cresciamo con l'idea che i libri siano completamente separati dalla realtà che viviamo, dalle persone che siamo. Chi scrive lo fa perché quello che esce fuori dalla penna è vita vissuta, non qualcosa di altro destinato alla polvere nelle biblioteche, ma un condensato di anni, secoli di esperienze, rinchiuso in qualche centimetro di carta.

Le insidie dell'esistenza si mettono contro di noi, e allora ci vengono in aiuto i classici, opere letterarie che hanno la capacità di parlare a ogni essere umano di ogni epoca, la cui grandezza inizia una collaborazione incessante con la fragilità e il bisogno di consolazione di chi legge, contribuendo a far nascere nuove interpretazioni a seconda delle epoche, delle debolezze e dell'orizzonte culturale del lettore, fornendo risposte a quesiti sempre nuovi. I classici sono anche quei libri immensi di cui pensiamo di conoscere tutto per sentito dire, ma ogni volta che li leggiamo scopriamo dettagli inimmaginati: è il caso della madre di tutti i romanzi, l'opera che ha generato tutta la letteratura occidentale, la storia dell'uomo dal pensiero complesso e (per questo) odiato da tutti, l'Odissea.

Dante, nella sua concezione fideistica della vita lo vedeva come un maestro di inganni, che a causa del suo bisogno di conoscenza supera i limiti umani e cerca di assomigliare a un dio, per questo lo fa inghiottire dal mare e dall'Inferno; Primo Levi lo vede in chiave antinazista, Pascoli immagina le sue vicende dopo il ritorno a Itaca, Joyce lo usa per raccontare le nevrosi dell'uomo moderno. Noi, leggendo oggi l'Odissea, vedremmo raccontate le difficoltà e i continui ostacoli dell'essere umano chiuso in casa, privato delle sue relazioni e delle sue libertà tipiche del periodo pandemico. Le associazioni sono fin troppo facili: anche noi come Ulisse ci troviamo continuamente di fronte a difficoltà che sembrano irrisolvibili, una segue l'altra ed è come se vivessimo una realtà fantascientifica, come se avessimo attraversato il muro di nebbia e vivessimo in un mondo parallelo in cui succedono cose terribili e impensabili. Anche noi cerchiamo la nostra Itaca, la "normalità" che ormai già ricordiamo come qualcosa di passato e irraggiungibile.

Ma come fa Ulisse a superare ogni sfida? Anzitutto, lui non è un supereroe. O meglio, lo è, ma non ha poteri sovrannaturali, al contrario di molti personaggi della mitologia. Non ha neanche grandi abilità nel combattimento. Certo, è sopravvissuto a una guerra, ma nell'esercito acheo c'erano sicuramente guerrieri più forti e temibili, come Achille, Aiace Telamonio, Diomede. La caratteristica che rende unico Ulisse è sì il suo ingegno multiforme, ma anche la sua capacità di incarnare tutti i valori più alti dell'essere umano, nel bene e nel male. Ulisse non avrebbe mai scritto un'ipotetica "guida per tornare a Itaca in 3 semplici passi", non era alla ricerca della positività a tutti i costi, delle good vibes, come invece un Ulisse moderno probabilmente farebbe. Ulisse andava avanti a ogni costo, ma era lacerato continuamente dalla paura, dall'incertezza, dai sensi di colpa, dalla nostalgia. Ulisse vince la maggior parte delle volte, ma la caratteristica che lo rende un supereroe è che prima di ogni nuova sfida non sa mai se vincerà o perderà, e anzi, qualche volta perde. Perde tutti i suoi compagni, anzitutto. Non ne riesce a portare neanche uno tra gli uomini delle dodici navi partite per la guerra. Perde, almeno in parte, la fiducia del suo popolo, quando stermina i suoi stessi sudditi nella sua casa. Siamo abituati a pensare che l'Odissea finisca con un lieto fine, il ritorno dell'eroe a casa. Non è così, il poema finisce con una strage e un'altra partenza. Ulisse continua a errare, continua a vagare e quindi a sbagliare. Ulisse è un uomo che sa sbagliare e accetta di sbagliare. Non gli interessa la perfezione, neanche quella fisica. Calipso ad esempio è forse l'unica donna. oltre Penelope, per cui Ulisse ha provato un sentimento che si possa avvicinare a quello che si chiama amore. Gli propone non solo l'immortalità, ma gli mette davanti gli effetti del tempo sui corpi di Penelope e di suo figlio, corpi che invecchieranno inevitabilmente. A Ulisse non interessa l'immortalità, preferisce quella sottile, crudele e lacerante maledizione di essere uomini, quella che rende possibile il coesistere di due volontà uguali e contrarie, il bisogno di stabilità e quello di conoscere cose sempre nuove per sentirsi vivi. Calipso abita un'isola in cui non piove mai, ma quando Ulisse sbarca la dea fa scendere la pioggia di tanto in tanto, perché l'uomo ha bisogno della pioggia per apprezzare il cielo sereno.

I nostri Ciclopi sono la mancanza di relazioni sociali, le tempeste la mancanza di lavoro, i temibili Lestrigoni sono le ormai insostenibili morti con cui siamo bombardati ogni giorno. L'unico modo per non cedere mentalmente è fare come Ulisse, avere sempre presente per cosa si combatte, e sapersi perdonare se a volte a prevalere è la nostra incapacità a reagire. Ma soprattutto ricordare che è inutile rinunciare a vivere ora per un domani che sarà. Non possiamo rimandare progetti, parole e la nostra stessa felicità a quando tutto sarà finito, non solo perché intanto il tempo passa, ma anche perché non sappiamo come sarà il domani. Finita la pandemia ci attendono nuove sfide, non solo quelle personali, che ognuno di noi dovrà affrontare, ma anche sfide globali, come il riscaldamento globale. Anche qui l'Odissea ci parla: l'antagonista principale di Ulisse è niente meno che Poseidone, il dio terribile che governa il mare. Gioca con lui come al gatto col topo, dopo aver cercato di doppiare capo Malea Ulisse entra in una nebbia immensa che lo porta nel regno dei mostri, delle creature marine, di Scilla e Cariddi, il regno degli dei, dove Poseidone regna sovrano, e neanche dopo il ritorno nel regno dove gli uomini mangiano pane la sua ira si spegne. Per placarla, Ulisse dovrà compiere la sua ultima grande "fatica", andare verso oriente, portare un remo sulla spalla e camminare finché sarà arrivato tanto lontano dal mare da incontrare un uomo, che confonderà il remo con uno strumento agricolo, e li dovrà immolare degli animali in onore di Poseidone. Omero non ci racconta questa ultima sua avventura, ma anche noi uomini moderni dovremo fare i conti non solo con il mare, ma con il vento, la Terra, il sole e vincere la sfida climatica. Il dio del mare infatti non perdona nessuno nell'Odissea, neanche i Feaci, discendenti dello stesso dio e puniti da lui perché accompagnarono Ulisse a casa. Un vero atto d'amore il loro, che sapevano della possibilità di venire puniti dal loro dio, ma decidono comunque di salvare Ulisse. Un altro messaggio da Omero, questa volta rivolta a chi ci governa e a chi gestisce l'emergenza sanitaria: ci si tira fuori dalle difficoltà solo mettendo da parte i nostri interessi, i nostri orticelli, in cambio di traguardi immensi. La sospensione delle licenze dei vaccini ad esempio sarebbe un'operazione degna dei Feaci, e a proposito dei vaccini è giusto ricordare almeno altri due episodi dell'Odissea: l'incontro con Eolo e l'uccisione dei tori del dio Helios da parte dell'equipaggio. Eolo, il dio dei venti, dona a Ulisse un otre in cui racchiude tutti i venti tranne quello favorevole per riportarlo a casa. Per tornare non dovrà fare altro che seguire la rotta e non aprire l'otre. Il regalo in realtà sa di presa in giro e già si presagisce cosa succederà: l'otre verrò aperto dai compagni di Ulisse mentre lui era addormentato, perché nonostante le raccomandazioni credono che in quell'otre ci sia un tesoro che Ulisse vuole tenere per sé. Nell'isola di Helios i compagni di Ulisse manifestano ancora una volta una mancanza di fiducia nei suoi confronti: Tiresia, il più grande tra gli indovini. predice a Ulisse che se in un'isola lascerà intatti i tori sacri a Helios, potrà tornare con i compagni salvi a Itaca. Ma nell'isola c'è una carestia improvvisa, i venti cessano, il caldo uccide pesci e selvaggina, risparmiando solo i tori, che vengono uccisi e mangiati dai compagni di Ulisse nonostante le raccomandaizoni. I compagni inevitabilmente moriranno tutti, dal primo all'ultimo, alla prima tempesta. In situazioni difficili affidarsi a un'autorità risulta difficile perché il panico prende il sopravvento e cerchiamo di fare di testa nostra. Ci può andare bene o male, nessuno può dirlo. Ai compagni di Ulisse intanto è andata malissimo.

L'Odissea è un poema immortale perché per rendere umanamente sopportabile i tanti nodi che si accavallano durante la nostra vita e per dare loro senso, o almeno per dare a noi stessi un senso, abbiamo bisogno di osservare, ascoltare e sapere che qualcun altro quei nodi li ha vissuti e in parte è riuscito a scioglierli. E' così che funzioniamo, è per questo che leggiamo, guardiamo film, ed è per questo che andiamo a teatro a vedere commedie e tragedie. E così Omero ci direbbe che tranquilli, tutto questo non è niente di nuovo. I problemi sembrano non finire mai? Un dio ha scatenato una pestilenza in tutto il mondo, e gli indovini (in questo caso, i virologi) sembrano non avere alcuna soluzione, o, al contrario, sembrano averne tante, che è poi la stessa cosa? La fine di tutti i problemi a volte si avvicina, ma poi ogni volta arriva qualcosa che vi spinge lontano? Niente di nuovo, è solo la storia dell'uomo. Ma io vi racconto di un uomo che nonostante tutto, nonostante la guerra, la pestilenza, la morte, la mancanza dell'amore di un figlio e di una moglie, nonostante mostri, cannibali, perdita di amici e compagni, segue comunque la sua strada. Quest'uomo è Ulisse, il padre di noi tutti.




sabato 5 settembre 2020

Perché iniziare a fare busking nell'era post Covid

Ci è stato ripetuto in tutte le salse che il settore più colpito dalla pandemia è quello artistico-musicale. Se già prima la possibilità di trovare una serata per un musicista era piuttosto bassa, con la chiusura di attività culturali, teatri, e la carenza di turisti, trovare una serata è diventato praticamente impossibile se non si è già inseriti nel difficile mondo dei locali live. La verità è che guadagnare solo con le serate per un musicista è impensabile. La maggior parte dei locali utilizza open mic o jam session per offrire al pubblico uno spettacolo live completamente gratis, i locali che pagano i musicisti pagano pochissimo, ed è difficile trovarli. Non è tutto. Per trovare una serata bisogna cercare il locale giusto, con il pubblico giusto, bisogna portare pubblico, accontentare il proprietario e seguire le sue preferenze nella scaletta. Insomma, spesso si finisce a suonare un repertorio che non ci piace, il tutto per 70 euro e una birra, se va bene con due serate a settimana. Le serate nei locali sono un'ottimo modo per crescere, farsi un nome, imparare a gestire l'adrenalina del palco, comunicare col pubblico, ma da sole sono spesso esperienze frustranti, dove è più il tempo impiegato a costruire scalette, contrattare con i proprietari e cercare pubblico che il ritorno economico. 

Un musicista deve essere versatile, e se la sua passione per la musica è vera, deve sperimentare nuovi modi per guadagnare con la propria passione. All'estero, soprattutto in Europa, è abbastanza normale per un musicista scendere in strada e suonare. A Londra ci sono vere e proprie audizioni, a Dublino a Grafton street si esibiscono normalmente tanti buskers tra cui moltissimi giovani... In Italia la concezione di arte di strada è legata ancora a idee obsolete, secondo cui chi suona in questo modo è un  senzatetto o un vagabondo. In realtà il busking è uno dei modi più validi per guadagnare con la musica, anche e soprattutto dopo il Coronavirus.

Ogni comune in Italia ha un regolamento a sé, a Roma ad esempio addirittura ogni municipio ha un regolamento a sé , si può scaricare la modulistica dal sitto ufficiale del comune (https://www.comune.roma.it/web/it/scheda-servizi.page?contentId=INF39631) e poi chiedere il permesse al comando dei vigili che fa riferimento al Municipio in cui si vuole suonare. Le regole sono spesso stringenti, nel Municipio I (centro storico) sono state recentemente chiuse alcune piazze, ci sono degli orari precisi in cui si può suonare, e i vigili sono spesso e volentieri poco teneri. A Catania si può suonare liberamente, a Milano ci si deve registrare su un'app, così come a Torino. Gli ostacoli iniziali sono comunque tanti, dalla scelta della posizione (non bisogna dare fastidio ai residenti, lavoratori, chiese) alla strumentazione, fino al repertorio. Ma una volta sistemate le questioni tecniche e burocratiche, con una posizione buona un musicista medio guadagna facilmente uno stipendio medio, anche con le città meno piene del solito. Il Coronavirus però pesa non solo sui guadagni ma anche sui regolamenti, che possono essere più restrittivi del solito. Se le restrizioni si dovessere inasprire per un rapido aumento dei contagi il busking avrebbe comunque senso di esistere: si possono fare live dalla propria cameretta e condividerli sui social, con allegato un link paypal per le donazioni.

I vantaggi del busking rispetto alle serate sono tanti, a cominciare dalla frequenza con cui si suona. In strada potenzialmente si può suonare tutti i giorni, al contrario difficilmente un musicista riuscirà a fare un mese di serate di fila. Nessuno vi chiede pubblico, nessuno avrà da ridire sulla vostra scaletta, sarete completamente imprenditori di voi stessi e il riscontro economico dipenderà soltanto dalle vostre capacità tecniche (o dalla scaletta, ma è un altro discorso). Oltre ai vantaggi economici, ci sono enormi messaggi umani. Tante persone vi ringrazieranno per quello che fate, i bambini vi adoreranno, farete spuntare il sorriso ai passanti, c'è chi vi racconterà la propria vita, chi addirittura vi proporrà di suonare in feste private. Il messaggio di fondo è: ragazzi, invece di lamentarvi della chiusura dei locali, prendete di petto lla vostra passione e scendete in strada, sperimentate nuovi generi, nuovi modi di suonare, di cantare, nuovi strumenti. Se la musica non ci rende più creativi e coraggiosi, a cosa ci serve?




venerdì 14 agosto 2020

Perché fare busking ai tempi della pandemia è una buona idea

Guadagnare con la musica in Italia è già ci per sé un’utopia, mettiamoci anche il Covid e diventa un’impresa titanica. Non è così.


Il virus ha insegnato che le piazze non possono fare a meno della musica. Non parlo delle cantate nazional popolari dai balconi, ma dell’esperimento di Jacopo Mastrangelo, il ragazzo che dal terrazzo ha suonato Ennio Morricone su Piazza Navona. È stata un’esecuzione senza pubblico, dove la musica ha riempito gli spazi vuoti lasciati dai corpi che di solito animavano la piazza. La musica ha bisogno delle città e le città della musica, ma sganciamoci dall’idealismo spicciolo e andiamo sul concreto.

Il busking (arte di strada in italiano) è sempre stato sottovalutato in Italia, sia dal pubblico che dai musicisti. All’estero è quasi normale imbracciare una chitarra e suonare per le vie commerciali di Monaco di Baviera, di Londra o di Dublino, a Roma se dici di suonare in strada ti chiedono se hai bisogno di un posto letto in dormitorio, o poco ci manca, anche se negli ultimi anni c’è un’inversione di tendenza. Ancora troppo pochi per quello che offre l’arte di strada.

Leggo di molti musicisti delusi per le serate saltate, per carenza delle stesse, perché i locali pagano poco o non pagano... RAGAZZI, SCENDETE E SUONATE IN STRADA.

Non solo è un ottimo metodo per esercitare il vostro strumento, ma vi assicuro che in un posto azzeccato e con una buona preparazione tecnica ci si può vivere. Non ci credete? Continuate a leggere.

Se non avete strumentazione investite qualche centinaio di euro per amplificatore (Roland STREET cube d’obbligo) strumento, asta e microfono per i cantanti, costruite un repertorio a metà tra il conosciuto è quello che piace a voi, studiate le caratteristiche del luogo in cui vorreste suonare. Buttatevi. Ogni città d’Italia ha un regolamento specifico per l’arte di strada, l’unica difficoltà iniziale è quella di capire dove e come leggere il regolamento. Con il Coronavirus inoltre i regolamenti si saranno inaspriti un po’ ovunque, ma con un po’ di pazienza il modo di suonare si trova. Inoltre, stando all’aperto il rischio di assembramenti è praticamente nullo e basta un avviso agli spettatori per far mantenere le distanze.

Ma veniamo alla mia esperienza: suono in strada dal 2012, inizialmente solo per hobby, da febbraio 2020 suono praticamente ogni giorno. Ho scelto proprio bene il periodo, un mese dopo infatti è scoppiata la pandemia. Ma sono proprio le difficoltà a farci trovare nuove opportunità. Mi esibisco a Roma, e in 30 giorni (a cavallo tra febbraio, io lockdown, giugno e luglio) ho portato a casa un migliaio di euro, non tantissimi, ma bisogna considerare che febbraio (precovid) è uno dei periodi più difficili per suonare in strada, e a luglio (post lockdown) è stato probabilmente uno dei periodi peggiori della storia. Inoltre ho un repertorio non conosciutissimo. Nonostante questo, la pagnotta la si porta a casa, senza elemosinare serate ai locali, senza quanta gente porti e nulla di queste cose. E se i regolamenti si inasprissero di più, o, famo le corna, ci sarà un nuovo lockdown? Fate la stessa cosa da casa, con un link paypal per le offerte e condividete la diretta ovunque. Non sará un virus a fermare la musica né tanto meno i musicisti. Scendete in strada ragazzi, la musica ha bisogno di corpi e le città vanno riempite di suoni.

sabato 18 aprile 2020

Perché ascoltare "Hey you" può salvare la salute mentale di tutti noi

Mi trovo nella mia camera dopo più di un mese di quarantena, siamo a metà aprile, in questo pomeriggio ho preso la chitarra e avevo una grande voglia di suonare Hey you dei Pink Floyd. Mi sono messo davanti alla finestra aperta. L'immedesimazione è una parte fondamentale per l'interpretazione di un pezzo, e data la situazione che stiamo vivendo, non mi sono dovuto nemmeno sforzare un po' per immedesimarmi nel protagonista, Pink. Ho cantato in tonalità originale senza microfono (nella seconda strofa Roger Waters raggiunge note parecchio alte) sperando che qualcuno mi ascoltasse. Una volta finito il pezzo, nella mia camera entra la mia compagna di quarantena, mia nonna, che completamente digiuna di musica rock mi chiede di chi fosse la canzone, e mi di dice che le ha dato una sensazione di morte.
L'osservazione mi ha molto colpito ed è stata la motivazione che mi ha spinto a scrivere queste poche righe. E' stata particolarmente interessante perché dicevo, mia nonna è completamente digiuna di musica rock e soprattutto digiuna di inglese. Non ha detto che le ha comunicato tristezza, o malinconia, o senso di solitudine, ma ha indicato qualcosa di preciso e concreto. Ha ricevuto la sensazione soltanto dagli elementi musicali che il suo orecchio ha potuto percepire: armonia, ritmo, melodia e dinamica, e la sua sensazione è sta più che pertinente: Hey you, come l'intero album The wall, è certamente un pezzo che parla di morte, spirituale certo, ma comunque morte.

Il mio rapporto con il rock è stato molto controverso: di solito ci si avvicina durante l'adolescenza perché si odia il mondo, e ci si rifugia in qualcosa che ci dica che possiamo sconvolgerlo. Io da adolescente assolutamente atipico non ho mai sentito il bisogno di ribellarmi, e mentre i miei coetanei ascoltavano Nirvana e Pink Floyd io ascoltavo il cantautorato italiano. Ho approfondito le mie conoscenze anni dopo, e ho imparato ad apprezzarlo anche grazie a questo pezzo, che mi è piacito da subito perché non è semplice ribellione, ma è una richiesta di aiuto. Pink è completamente isolato dal mondo esterno, ha costruito un muro tra lui e il mondo con le sue mani, ma è pentito e si accorge troppo tardi che ha un disperato bisogno dell'uomo che cammina da solo nel freddo e che invecchia pian piano con i suoi sorrisi che si spengono, di chi è solo davanti al suo telefono. Di chi insomma, soffre e vive di solitudine esattamente come lui. Hey you oltre alla morte, comunica sicuramente forza. Il potente basso nell'assolo, la voce di Roger Waters nell'ultima strofa. Una forza che parte da un leggero arpeggio di chitarra acustica che si trasforma con un climax sonoro fino allo straziante assolo di chitarra, che rimanda all'ambiente militare (The Worms, il movimento che Pink abbraccia proprio in questo pezzo, è non a caso un movimento fascista). La genialità dei Pink floyd sta tutta qui. L'arpeggio leggero di chitarra diventa un tornado, la debolezza diventa forza. Ma se diventa forza, significa che già al suo interno la conteneva: ogni richiesta di aiuto, anche se apparentemente prerogativa dei deboli e di chi non riesce a trovare il coraggio in se stesso, è in realtà la più grande manifestazione di forza che esista, perché solo chi sa di non poter bastare a se stesso sa chiedere aiuto, e avere la consapevolezza di non poter bastare a se stessi è un atto di grande umiltà e sacrificio spirituale. In un mondo dove i contatti umani sono adesso impossibili ci rendiamo conto che in realtà erano più forti di quanto pensassimo e che come Pink, avevamo e abbiamo un disperato bisogno del nostro vicino di metro che era chino sul suo smartphone.

Hey you ci aiuta a tuffarci dentro la nostra anima, ci invita ad ascoltare fino in fondo la nostra fragile e umana richiesta, per quanto dolorosa essa sia, e ci insegna che non esiste nessun assolo devastante senza un arpeggio intimo, non esiste nessuna forza senza debolezza.

giovedì 25 luglio 2019

Calexico and Iron & Wine a Roma, il racconto del concerto






Suoni polverosi, provenienti da una bottega di antiquariato, ripuliti d una veloce leggera, dolce e calda come il vino, barba lunga. Testi veloci e bucolici, quasi felliniani: questo è in estrema sintesi l'indie folk di Samuel Ervin Beam, cantautore statunitense conosciuto al grande pubblico per essere l'autore di Flightless bird, American mouth, struggente ballata inserita nel primo film della saga di Twilight.
Ritmi latini, psichedelia, jam session in cui si sposano jazz e folk, tutto questo sono i Calexico, band folk rock dell'Arizona. Calexico e Iron and wine avevano già collaborato nell'album In the Reins del 2005 prima di scrivere un nuovo album registrato in soli 5 giorni, Years to burn.
A Villa Ada il 24 luglio è andato in scena tutto questo, in un incontro-scontro di sonorità e atmosfere che ha saputo creare momenti di estrema intimità, uniti a momenti dionisiaci in cui batteria e contrabbasso si lanciavano in assoli surreali.

La scaletta del concerto è stata basata quasi interamente sulle collaborazioni presenti e passate, divisa essenzialmente in 3 parti:
-La prima in cui gli accordi legnosi di Sam (frutto di una particolare tecnica chitarristica basata sulla plettrata molto vicina al ponte della chitarra, per dare un suono più duro e indie) hanno accompagnato le pazzesche jam ipnotiche, come ad esempio "The Bitter suite". La chitarra di Sam a volte si limita ad accompagnare, ma lo fa sempre con gran classe, cercando con le accordature aperte di dare suoni sempre diversi e interessanti. Degni di nota due assoli di contrabbasso e tromba, supportati dall'ottima batteria jazz di John Convertino
-Nella seconda parte, interamente unplugged, Joey Burns (voce dei Calexico) e Sam sono da soli sul palco, e deliziano il pubblico con pezzi intimisti scambiandosi i rispettivi repertori.
-Nell'ultima parte torna la band, che però purtroppo non riesce a ricreare la magia della prima parte.

Come spesso succede in molte collaborazioni musicali, il risultato finale può essere poco amalgamato e il pubblico più affezionato a momenti di grande empatia acustica può non essere pronto per ascoltare una jam e viceversa. La scommessa degli interpreti è stata grande, e proprio per questo possiamo dire che è stata vinta, almeno dal punto di vista musicale. Lo spettacolo ha inebriato chi è andato lì per perdersi e non per trovarsi, per dimenticari ogni punto di riferimento sonoro, ha premiato chi, abituato al linguaggio senza parole del ritmo e degli assoli, è riuscito a farsi affascinare da una voce e una chitarra, e chi invece, amante delle storie e di chi le sa raccontare, si è lasciato andare per una sera al fascino del folk rock psichedelico. In alcuni punti, soprattutto verso la fine, la band era spenta e lo spettacolo purtroppo ne ha risentito, ma a Villa Ada è stata una serata da ricordare, una serata in cui il folk in uno dei punti più alti si è incontrato, ha comunicato e si è lasciato andare a dichiarazioni d'amore e amplessi



mercoledì 12 luglio 2017

Perché il cinema di Pasolini non è neorealista






Mi è capitato spesso di sentire studenti, manuali e professori definire il cinema di Pasolini "neorealista". Questa è a mio avviso una banalizzazione, che dimostra che il cinema di Pasolini, così come la sua opera in toto, non è stata ancora capita del tutto. In questo articolo proverò a spiegare perché.

Partiamo prima di tutto col definire cos'è stato il neorealismo nel cinema italiano. 
Il neorealismo nel cinema è un fenomeno tutto italiano, la cui nascita solitamente si fa risalire al 1943 con Ossessione, di Luchino Visconti. Il neorealismo, a livello teorico e programmatico, nacque attorno alla rivista Cinema, fondata da Ulrico Hoepli e che contava tra i suoi collaboratori anche Visconti e Antonioni. Visconti soprattutto aveva già avuto esperienze internazionali collaborando con Jean Renoir, collaborazione che gli permise di entrare in contatto con il realismo poetico, corrente cinematografica francese che pose le basi del cinema moderno, i cui esponenti principali furono Renoir e Marcel Carné, Il neorealismo deve molto al realismo poetico francese, ereditando l'attenzione per i luoghi di periferia, per l'eroe tragico e per la povertà.
Tra i film neorealisti più importanti, oltre a Ossessione, vanno ricordati ovviamente Roma città aperta, La terra trema, Paisà, Germania anno zero, Ladri di biciclette, Scuscià, Riso amaro, Il bandito, La strada. Già da questi film si delineano in modo preciso quello che è stato il cinema neoralista: utilizzo di attori venuti dalla strada, bambini come protagonisti, interesse documentaristico per la realtà con una marcata intenzione di denuncia sociale, riprese di esterni, attenzione per le classi popolari.
Il neorealismo influenzò tutto il cinema italiano, sia dal punto di vista tecnico che tematico. Impossibile per un regista operante negli anni '60 non fare riferimento al neorealismo per girare un film.

Pasolini gira il suo primo film nel 1961, quando il fenomeno Neorealismo stava già esaurendosi (gli ultimi film risalgono al 1958, anche se Rocco e i suoi fratelli, del 1960, talvolta viene considerato come neorealista), tuttavia non è per motivi cronologici che i film di Pasolini non sono neorealisti. 
Accattone (1961) al primo sguardo può apparire come un film sulla povertà, una sterile denuncia sociale, una santificazione della povertà contro la società cattiva. Accattone non è niente di tutto questo. Il vero fulcro del film l'evoluzione del personaggio Accattone è il suo desiderio di salvezza, non è la denuncia sociale della povertà delle borgate, non  c'è nessun intento documentaristico che vuole mostrare la condizione delle classi subalterne, così come in tutta l'opera di Pasolini non c'è nessuna denuncia sociale per le condizioni del sottoproletariato, almeno intesa come la denuncia sociale del Dopoguerra. Anzi, Pasolini visse come una tragedia proprio il passaggio del sottoproletariato da membro inconsapevole della storia dell'umanità a manifestazione volgare della media borghesia. E' quando il sottoproletariato si arricchisce che si ha l'omologazione. L'interesse di Pasolini per il sottoproletariato è un interesse totalmente spoliticizzato, è un interesse religioso, sacro, vitale. E' questa la sua "denuncia sociale".
E' proprio questo suo interesse così intenso per l'umanità ai confini della società che lo farà diventare un marxista poco ortodosso. Il marxismo ha fede nel proletariato perché un giorno riuscirà a sovvertire i rapporti di classe, mentre Pasolini è attratto dal sottoproletariato perché è portatore di una sacralità ancora intatta: la sua attrazione per il sottoproletariato è tanto intensa che diventerà anche e soprattutto attrazione sessuale.
Il film è pervaso da un potente onirismo, che trova il suo culmine nella scena in cui alla violenza dei criminali napoletani viene associata la musica di Bach. Quest'associazione è del tutto estranea al cinema neorealista, e dimostra quanto le intenzioni di Pasolini siano altre rispetto a quelle dei suoi illustri predecessori. Un'altra scena che separa in modo definitivo il cinema di Pasolini da quello Neorealista è quando Accattone sogna di essere in Paradiso. Questa scena è onirica per definizione, totalmente estranea a film neorealisti come Ladri di biciclette o Paisà.

Mentre nel Neorealismo la speranza di evadere dalla povertà è raccontata in modo positivo e giusto (d'altronde avevamo appena passato la Seconda Guerra Mondiale), la voglia di mettere la testa a posto da parte di Accattone si rivela la sua condanna terrena: è proprio quando inizierà a lavorare e a guadagnare che Accattone perderà la sua spontanea vitalità. Il lavoro e il guadagno rappresentano l'avvicinamento al mondo borghese, avvicinamento totalmente dannoso per il sottoproletariato.

L'influenza del Neorealismo tocca Pasolini in modo solo superficiale (tra l'altro Pasolini criticò apertamente il Neorealismo, dicendo che era troppo ancorato alle politiche della Resistenza e offriva un realismo solo superficiale), vengono affrontate tematiche talmente differenti che è impossibile etichettare Pasolini neorealista. Accattone è un film sulla Misericordia, non sulla povertà.